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Ibrahim, Leo, Ibrahim, Omar, Ismaila: c'è differenza tra morire di fame o di guerra?

"Ad occhio la nostra produzione si è ridotta di circa il 30% negli ultimi vent'anni". Così mi disse Mohamed l'anno scorso, quando andai in Marocco a visitare i produttori di zafferano del presidio Slow Food di Taliouine, un piccolo villaggio sull’altipiano Souktana di 1500 metri.

Il caldo in queste zone di montagna ha avuto effetti diretti non solo sulla biodiversità e sulla produzione, ma anche sulla popolazione locale.

Alcuni contadini sono andati in cerca di un secondo lavoro, altri hanno lasciato il proprio villaggio per trasferirsi nei centri urbani abbandonando per sempre un mestiere antichissimo.

Queste sono le migrazioni interne, un movimento importante di cui si parla poco. Se da un lato assistiamo all'abbandono di interi spazi rurali da parte di chi prima li abitava e li curava, dall'altro assistiamo alla crescita incontrollata di città sempre più affollate, dove non tutti riescono a trovare il proprio spazio. Dopo aver tentato la strada della migrazione interna, molti si mettono nelle mani delle criminalità organizzate per varcare il confine.

Se vogliamo conoscere gli effetti del cambiamento climatico, basterebbe dunque parlare con i contadini.

 

Ciò che manca è una visione collettiva globale sul tema. Oggi ci sono tanti territori a rischio, non solo in Africa ma anche in Oceania e in Asia orientale, da cui gli abitanti sono costretti ad emigrare come per esempio le popolazioni delle isole del Pacifico che a causa dell’innalzamento del mare, di vedono costrette ad abbandonare le proprie terre.

La storia di Leo che sente sulla propria pelle il dolore del surriscaldamento globale nelle isole Fiji e Salomone e che ha visto l’oceano risucchiare completamente cinque isole quando furono colpite dal ciclone Winston.

L’innalzamento del livello del mare è un trauma per queste popolazioni colpite. Molti tentano di recarsi in Nuova Zelanda, che ad oggi sembra essere l’unico paese a voler riconoscere il cambiamento climatico come motivo per la richiesta di protezione internazionale.

Persone che scappano dai disastri ambientali. Si tende a differenziare con leggerezza chi fugge per motivi di conflitti e chi invece perde tutto o perché il suo territorio è stato distrutto per calamità naturali. Ma che differenza fa tra una persona che rischia di morire a causa della guerra e un’altra che rischia di morire per fame?

Il clima ha avuto effetti anche sulla vita di Ibrahim, di etnia Peul, una minoranza dedita alla pastorizia sparsa tra diversi paesi dell’Africa Subsahariana, dal Camerun alla Mauritania.

Ibrahim è un migrante che vive in Italia, nato nell’antico villaggio di Guédé, nella valle del fiume Senegal, sul confine tra l'attuale stato del Senegal e la Mauritania. Questa piccola cittadina fu la gloriosa capitale del regno del Futa Toro che oggi corrisponde al dipartimento di Podor, nella regione di Saint-Louis.

Racconta emozionato di quando da piccolo, durante la ricreazione andava con i suoi compagni di classe Omar e Ismaila nella foresta a guardare correre su e giù conigli, scoiattoli e il varano del Nilo. Una ricchezza naturale che con tristezza ha dovuto abbandonare per andare a studiare fuori. Ma quando nel 1983 ritornò rimase colpito da come tutto fu distrutto, quello che prima era una folta vegetazione, era diventato deserto.

Quella sabbia che ha sempre minacciato quel territorio non trovava più i boschi verdi e curati a bloccarla, ma a causa dell’uomo, è avanzata fino nei pressi delle case.


Le voci nei villaggi raccontavano dei tagliatori di alberi, lavoratori mandati dalla Guinea per raccogliere tutto il legname possibile, ma nessuno aveva mai capito per conto di chi. In pochi anni tutta quella vegetazione sparì. Ibrahim però, non ha dimenticato quel sentimento di smarrimento e a distanza di 35 anni, si impegna per lo sviluppo rurale del suo territorio, nella sua associazione in Italia, ogni associato pianta un albero in questo villaggio, mostrando come il ruolo dei migranti, anche a distanza può fare la differenza.

I suoi compagni di classe, diventati migliori amici con il passare del tempo hanno scelto anche loro come missione di vita, la cura della terra e di battersi contro la desertificazione e dopo gli studi oggi sono degli eroi con la zappa.

Il cambiamento climatico ha tante facce, incendi, inondazioni, scioglimenti di ghiacciai, erosioni desertificazioni ma ha anche la faccia di Mohamed, di Leo, di Ibrahim, di Omar e Ismaila. Lottare per frenare il cambiamento climatico non ha solo la funzione di sostenere l’ambiente ma l’umanità intera.


Articolo scritto per Origami - La Stampa

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